Assenze da lasciar tacere

[ racconto   Massimiliano De Rose    8 maggio 2011

Una foglia d'ulivo non può conoscere il nome del vento che la vuol far cadere. Non può.

Avevo risalito il mal canton senza fretta, misurando ogni passo, e passando la mano dolcemente contro l'erbaccia che sputava fuori il muro, fino al punto in cui un sentiero si addentrava nel bosco. Lo imboccai. La vecchia casa dello Zio l'avrei anche potuta raggiungere proseguendo lungo la strada asfaltata, ma preferii inoltrarmi nella pineta, lasciandomi avvolgere nel fresco abbraccio dei sempreverdi. Dopo solo qualche minuto mi ritrovai nuovamente sotto il chiarore del giorno, nel mezzo dei campi coltivati. Vidi in lontananza il Berto seduto su un masso ai bordi di un campo di frumento. Mi aveva visto crescere, il Berto, e probabilmente si stava chiedendo cosa ci facessi da quelle parti. Sentii il suo sguardo incollato addosso mentre percorrevo quel tratto di sterrato che mi avrebbe condotto ai terreni che un tempo erano stati miei. Andai oltre fino al punto in cui scomparvi dalla sua vista, lasciandomi così alle spalle il suo osservare indiscreto. Mi accorsi di non essere più in sintonia con quei luoghi. Gli anni di città avevano annientato quella complicità che avevo con il bosco e con la natura in generale. La stamberga diroccata dello Zio, seminascosta e fagocitata dalla vegetazione, comparve all'orizzonte. Improvvisamente mi ricordai perché ero andato fin lassù. Respirai a fondo.

Chissà perché aveva voluto vedermi proprio là. A migliaia di chilometri di distanza da casa sua, oltre il suo mare. Quel mare che, per qualche breve estate, era stato anche il mio. Quel mare capace di far sorridere, di far innamorare, di far emozionare. E bastava. Chissà perché aveva voluto vedermi proprio là. Vicino alla mia, di casa. Varcai il cancello arrugginito, che cigolò fastidiosamente ruotando sui cardini, e percorsi il vialetto ormai riconsegnato alla natura. L'erbaccia aveva quasi interamene coperto i solchi su cui un tempo rotolavano le auto e i mezzi agricoli. Mi avvicinai al fienile. Era proprio dove immaginavo che fosse. Sulla macchina dello Zio, al posto di guida.

La macchina dello Zio, nei miei occhi da ragazzino, era un bolide senza età. Un'auto che avrei guidato da grande. All'epoca non riuscivo ancora a percepire lo scorrere del tempo, il rapido scivolare degli anni e delle mode. Non sapevo che quell'auto sarebbe diventata un rottame. Era bellissima. Blu. Con le gomme che trasbordavano dai passaruota, mezze sbilenche, leggermente piegate verso l'esterno, ma che davano un'aria vagamente aggressiva a quel muso sorridente con gli occhietti tondi. I doppi scarichi e lo scorpione in bella vista sulla carrozzeria. Mi ci immaginavo alla guida, da grande. Una mano sul volante e l'altra appoggiata al finestrino aperto, con la radio che passava I Fought The Law dei Clash ed il vento che entrava dal tettuccio aperto. Presi posto sul sedile del passeggero e chiusi la porta. Ci salutammo solo con un cenno del capo, come se fosse normale vedersi in quel posto. Sfiorai con la mano il cruscotto impolverato.

"Ci salivi anche da bambino, sai? Ti prendevo e ti mettevo al posto di guida, proprio come ora. Eri talmente piccolo che non riuscivi nemmeno a guardare fuori dal vetro! Però stringevi quel volante e sterzavi a destra e sinistra come se ci fosse una strada da percorrere."

Lo guardai. Sorrideva sereno. Aveva gli stessi occhi di allora. Grandi e neri. Quegli occhi che scrutavano oltre il parabrezza lungo il viale. Non lo vedevo da quando aveva dodici anni. Ora di anni ne aveva ventisei. Mi chiesi come aveva trascorso la sua adolescenza. E la sua gioventù. Cercavo di ripercorrere la mia, di giovinezza. E di immaginarlo. Forse eri come il Vedetta, che si sforzava di avere sempre l'aria dell'eroe maledetto, e ovunque andavamo riusciva a rimorchiare. O forse come Cambo, che ai concerti dei De Sfroos, dopo una bottiglia di vino, riusciva a pogare con i vasi di fiori. O come Mizza, che rideva, fumava, scriveva poesie sui tovaglioli di carta e rideva ancora. Come il Pessy, che usciva per ultimo dai locali e con una bestemmia pagava anche il conto dei più furbi. O forse come Tuni, che ubriaco fradicio riusciva ancora a trovare la forza di fare l'imitazione del vecchio Ballerini, prima di essere abbandonato come una scopa sull'uscio di casa. O come Yashin, che uno come lui non si può descrivere e basta.

O forse sei stato semplicemente Cristian. Che mi tirava i calci negli stinchi in spiaggia, quando aveva cinque anni. Che si lasciava mettere il gel tra i capelli e rideva davanti allo specchio e poi si vergognava di uscire. Così ti ricordo. Che amava tagliare il prato del giardino di casa sua, assorto ed in pace con la vita. Che la mattina apriva la finestra e, per prima cosa, dava il buongiorno alla mamma, già al lavoro. Che amava pescare e ascoltare buona musica. Così ti hanno descritto.

Lo guardai di nuovo. I suoi occhi fissavano il lungo viale oltre il parabrezza dell'auto. Ora mi chiedo quale vita ti avrebbe aspettato una volta aperto il cancello, là in fondo. E chi si sarebbe seduto al tuo fianco, sul sedile del passeggero. Adesso la macchina dello Zio non ha più il tetto. E neanche i copertoni. I sedili sono tutti bucati e consunti dal tempo. Ora è abbandonata nel fienile. Nello stesso identico posto dove la parcheggiava lo Zio.

E' meglio dimenticare che ricordare e piangere.

Capii che era giunto il momento di lasciarlo andare.

Vidi il Berto, col cappello sugli occhi e un forcone in mano, avvicinarsi a grandi passi al fienile. Teneva la mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole ed aveva un espressione torva, incupita dai folti baffi malcurati.

"Cosa ci fai qui?" mi chiese.

Si avvicinò all'auto, gli girò in torno e guardò nell'abitacolo, come se stesse cercando qualcun altro oltre me.

"Avrei giurato foste in due, sull'auto, un attimo fa."

"No" gli risposi sorridendo "ci sono solo io".

Quando cade una foglia d'ulivo daremo la colpa al vento, un vento di cui non conosciamo il nome. Quel vento che, in quel luogo lontano, piega i tronchi degli alberi fino a costringere le fronde a guardar per terra. Un vento che soffierà per sempre sul mio cuore da quel luogo lontano dove non basterà più il mare.

fine

 


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